LA CORTE DEI CONTI

    Ha  adottato  la  seguente  ordinanza,  sui ricorsi in appello in
materia  di  responsabilita'  amministrativa, iscritti ai numeri 1777
resp. e 1801 resp. del registro di segreteria, presentati dai signori
De   Gaetano  Rosario,  elettivamente  domiciliato,  insieme  al  suo
difensore  avvocato  Giovanni Lentini, in Palermo via Siracusa n. 30,
presso  lo  studio  dell'avv.  Roberto Genna, e dal signor Morsellino
Giovanni elettivamente domiciliato, insieme al suo difensore avvocato
Fabrizio  Genco,  in  Palermo  via  Sferracavallo  n. 146/a presso lo
studio   dell'avv.   Anna   Drago,  per  la  riforma  della  sentenza
n. 1712/2005  dell'8 luglio 2005 emessa dalla Sezione giurisdizionale
della  Corte  dei conti per la Regione Siciliana, e nei confronti dei
signori   Maimone   Mariano,  Scavuzzo  Domenico,  Marino  Francesco,
Gandolfo  Diego,  Malerba  Giovanni, Simone Vincenzo, Saccaro Renato,
Todaro Diego, Lentini Michele, Morsellino Salvatore.
    Uditi  nella  Camera  di  consiglio del 7 marzo 2006 il relatore,
consigliere  Mariano Grillo, l'avvocato Fabrizio Genco per Morsellino
Giovanni  e,  delegato  dall'avv.  Giovanni  Lentini,  per De Gaetano
Rosario;   l'avvocato  Maria  Beatrice  Miceli  comparsa  per  Marino
Francesco  e,  su  delega  dell'avvocato Gaspare Lentini, per Saccaro
Renato;  il vice procuratore generale Diana Calaciura per il pubblico
ministero.
    Visti tutti gli atti della causa.

                                Fatto

    A  seguito di giudizio penale definito con sentenza della suprema
Corte  di cassazione n. 2953 del 1° settembre 1999, che proscioglieva
il  signor Vincenzo Barone - segretario comunale - e i signori Todaro
Francesco  e  Catalano  Mariano - rispettivamente assessore e sindaco
del  Comune di Calatafimi Segesta - dal delitto di truffa, mentre per
l'imputazione   di   tentativo   di  abuso  d'ufficio  dichiarava  la
prescrizione  maturata in corso di processo, il consiglio comunale di
quel  comune  con delibera n. 65 del 12 settembre 2001 riconosceva il
diritto  al  rimborso  delle  spese  legali  sostenute  dai predetti,
ritenendo  che  la  sentenza  della  suprema  Corte fosse a contenuto
favorevole agli imputati.
    Il   procuratore   regionale   considerava   non  sussistenti  le
condizioni  previste  dalla disciplina vigente in materia di rimborso
delle  spese  legali  in  favore dei dipendenti pubblici coinvolti in
giudizio  civile,  penale,  amministrativo  e contabile e imputava la
responsabilita'  del  danno  di  111.485,00  euro  ai  componenti del
consiglio  che  avevano  adottato  la suddetta delibera ed al rag. De
Gaetano  Rosario che aveva espresso il parere di regolarita' tecnica.
A  seguito  dell'ordinanza  n. 391  del  2004  la  procura  regionale
estendeva  la  domanda anche nei confronti di Morsellino Giovanni che
aveva  reso  il parere di regolarita' contabile sulla legalita' della
spesa.
    La sezione giurisdizionale con sentenza n. 1712 del 2005, resa in
prima istanza, ha mandato assolti per assenza di dolo e colpa grave i
componenti   del   consiglio   comunale,   mentre  ha  dichiarato  la
responsabilita' dei signori De Gaetano Rosario e Morsellino Giovanni;
ha  determinato  il  danno risarcibile nella misura del 25% di quello
contestato  ed  ha  condannato  in solido i convenuti al pagamento in
favore  del  Comune  di  Calatafimi  Segesta della somma di 27.871,25
euro, oltre rivalutazione monetaria dalla data dell'esborso sino alla
pubblicazione  della  sentenza  ed  agli interessi legali sulle somme
rivalutate,  da questa ultima data sino al soddisfo ed alle spese del
giudizio  in  favore dello Stato che ha liquidato in complessivi euro
398,50.
    Avverso  tale  sentenza i signori De Gaetano Rosario e Morsellino
Giovanni  interpongono  separati  appelli  con  i  quali  chiedono il
proscioglimento per infondatezza della domanda.
    Nelle sue conclusioni la procura generale chiede il rigetto degli
appelli.
    Con istanza in data 8 febbraio 2006 gli appellanti congiuntamente
dichiarano   che   intendono  avvalersi  della  disposizione  di  cui
all'art. 1,  comma  231,  della  legge  n. 266 del 23 dicembre 2005 e
chiedono  la  definizione  del  procedimento mediante il pagamento in
solido  del  10%  della  somma  portata  in  condanna  nella sentenza
impugnata.
    Su  detta istanza il procuratore generale conclude chiedendo alla
sezione di determinare la somma dovuta nella misura del 25% del danno
a cui gli istanti sono stati condannati in solido.
    Tutte  le  parti  sono  intervenute alla discussione in Camera di
consiglio  confermando le domande gia' avanzate con i rispettivi atti
conclusionali.

                               Diritto

    I  ricorsi  vengono  riuniti  ai  sensi  dell'art. 335 del c.p.c.
perche'  le  impugnazioni sono state proposte separatamente contro la
stessa sentenza.
    Il  Collegio  preliminarmente  rileva  che  avverso  la  sentenza
n. 1712  dell'8  luglio  2005,  notificata  il  20  luglio  2005, gli
interessati  hanno  ritualmente ed in termini interposto i rispettivi
appelli. In pendenza degli stessi e' intervenuta la legge 23 dicembre
2005,  n. 266,  il  cui  art.  1  prevede  che  «Con riferimento alle
sentenze  di  primo  grado pronunciate nei giudizi di responsabilita'
dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla
data  di  entrata  in vigore della presente legge, i soggetti nei cui
confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere
alla  competente  sezione di appello, in sede di impugnazione, che il
procedimento  venga  definito  mediante il pagamento di una somma non
inferiore  al  10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno
quantificato nella sentenza» (comma 231). «La sezione di appello, con
decreto  in  Camera  di consiglio, sentito il procuratore competente,
delibera  in  merito  alla  richiesta  e,  in  caso  di accoglimento,
determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del
danno  quantificato  nella  sentenza  di  primo  grado, stabilendo il
termine  per  il  versamento» (comma 232). Infine che «il giudizio di
appello  si intende definito a decorrere dalla data di deposito della
ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello»
(comma 233).
    Tali   disposizioni,   in   sostanza,   introducono   nella  fase
dell'appello   un  procedimento  camerale  diretto  alla  definizione
agevolata del giudizio di responsabilita' amministrativa.
    La  sezione dubita della legittimita' costituzionale di un simile
sistema  di  regole, applicabili nella specie poiche' il mutamento di
diritto  sostanziale  e'  avvenuto prima dell'accertamento definitivo
della  responsabilita'  dei  soggetti  intimati,  in  relazione  agli
artt. 3, 97, 101 e 103 Cost.
    Dalla  giurisprudenza  costituzionale (sentt. nn. 68 del 1971, 63
del  1973  e 1032 del 1988) sembra desumersi che la concreta garanzia
dei  principi costituzionali di eguaglianza, del buon andamento e del
controllo  contabile,  i  quali ultimi sono legati dal comune fine di
assicurare l'efficienza e la regolarita' della gestione finanziaria e
patrimoniale  degli  enti pubblici, sia sostanzialmente affidata alla
legge ordinaria.
    Sono  riservate,  infatti,  al  discrezionale  apprezzamento  del
legislatore  non  solo  la determinazione e la graduazione dei tipi e
dei  limiti di responsabilita' che, in relazione alle varie categorie
di  dipendenti  pubblici  o  alle  particolari  situazioni  regolate,
appaiano  come  le  forme  piu'  idonee  a garantire l'attuazione dei
predetti  principi costituzionali (sent. n. 411 del 1988; ord. n. 549
del  1988,  nonche',  in relazione all'art. 28 Cost., le sentt. nn. 2
del  1968,  123  del  1972,  164  del 1982, 26 del 1987), ma anche la
possibilita'    di    stabilire    un   limite   patrimoniale   della
responsabilita'   amministrativa   (sent.   n. 340  del  2001).  Cio'
significa  in  ultima  analisi,  per un verso, che, ancorche' non sia
possibile  trarre  dall'ordinamento  (artt. 97  e 103, secondo comma,
Cost.)  un  principio  di  inderogabilita'  delle comuni regole della
responsabilita',  si  puo',  tuttavia,  da  esso  ricavare  la regola
secondo  la  quale  la  discrezionalita'  del legislatore, per essere
correttamente  esercitata,  deve  determinare  e  graduare i tipi e i
limiti  della  responsabilita',  caso  per  caso, in riferimento alle
diverse  categorie  di  dipendenti  pubblici  ovvero alle particolari
situazioni,  stabilendo, per ciascuna di esse, le forme piu' idonee a
garantire  i  principi  del  buon andamento e del controllo contabile
(sent.  n. 371  del 1998) e, per l'altro, che, in sede di giudizio di
legittimita'    costituzionale,    le    leggi    disciplinanti    la
responsabilita'   dei   pubblici   dipendenti  sono  sindacabili,  in
riferimento  ai  parametri  invocati,  solo  sotto  il  profilo della
ragionevolezza  della  disciplina  adottata  e delle differenziazioni
introdotte (art. 3 Cost.).
    Pur  non  potendosi  negare,  dunque,  in  linea  di principio la
possibilita'   di  un  intervento  legislativo  del  tipo  di  quello
esaminato,   e',  tuttavia,  pur  sempre  necessario  che  esso  sia,
anzitutto,  strettamente  collegato  alle specifiche peculiarita' del
caso,   tali   da   escludere   che  possa  risultare  arbitraria  la
sostituzione  della disciplina generale - originariamente applicabile
-  con  quella  eccezionale  successivamente  emanata, tanto sotto il
profilo  del  rispetto  del  principio  costituzionale  di parita' di
trattamento,  quanto sotto il profilo della tutela del buon andamento
e  della  salvaguardia  da indebite interferenze dell'esercizio della
funzione giurisdizionale.
    Sennonche',  nella  specie  le previsioni normative denunciate di
incostituzionalita'   sono  caratterizzate  da  una  indeterminatezza
assoluta  sullo  scopo perseguito dal legislatore, tale da precludere
definitivamente  la  ricerca di una qualsiasi ratio normativa che non
sia  quella  della  limitazione  patrimoniale del risarcimento per se
stessa; pertanto, esse, connotandosi unicamente come effetto premiale
ingiustificato,   si   palesano   come   una   negazione  illogica  e
ingiustificata  dei  principi  del  buon  andamento  e  del controllo
contabile,  che  non  puo'  certamente  rappresentare  un  termine di
comparazione  con  gli  altri valori coinvolti ai fini della verifica
del rispetto dei principi di eguaglianza e di buon andamento.
    Le  previsioni  in  questione  appaiono  viziate  in relazione ai
parametri  costituzionali  indicati anche per altro aspetto. Infatti,
nel  sistema  positivo  vigente  l'attenuazione della responsabilita'
amministrativa,  nei singoli casi, e' rimessa al potere riduttivo sul
quantum  affidato  al  giudice,  che  puo'  anche  tenere conto delle
capacita'   economiche  del  soggetto  responsabile,  oltre  che  del
comportamento,   al   livello   della  responsabilita'  e  del  danno
effettivamente   cagionato.   In   contrasto   con   questi  principi
dell'ordinamento  ed  assolutamente  irragionevole  e', pertanto, una
riduzione    predeterminata    e    pressoche'    automatica    della
responsabilita' amministrativa e della misura del risarcimento, senza
che possa soccorrere una valutazione sull'incidenza del comportamento
complessivo  e  sulle funzioni effettivamente svolte nella produzione
del  danno,  in  occasione  della  prestazione che ha dato luogo alla
responsabilita' (cfr. Corte cost. sent. n. 340 del 2001).
    Ugualmente  incostituzionale  appare,  infine,  l'affidamento  al
giudice   contabile  di  un  potere  discrezionale  illimitato  nella
individuazione  delle ragioni da porre a fondamento dell'accoglimento
della   domanda   di   riduzione   dell'addebito   e  della  concreta
determinazione  della  misura del risarcimento, avendo il legislatore
indicato solo i limiti quantitativi di tale potere fra un minimo e un
massimo  risultanti dalla norma, senza fissare i criteri direttivi ai
quali il giudice stesso debba attenersi.
    Le  norme  in  esame, infatti, oltre a porsi in diretto contrasto
con i principi di cui gli artt. 3, 97 e 103 Cost., essendo dirette ad
introdurre  una  disciplina  limitativa  in forma generalizzata della
responsabilita' amministrativa con riferimento indiscriminato a tutti
i  pubblici dipendenti e a tutte le possibili situazioni, confliggono
con  il  principio  secondo  cui  il  giudice  e' soggetto alla legge
(art. 101  Cost.),  con grave vulnus del principio di separazione del
potere legislativo dal potere giudiziario.
    La  questione  di  legittimita' costituzionale, non superabile in
via   interpretativa,   e'  rilevante.  Qualora,  infatti,  le  norme
denunciate  venissero dichiarate incostituzionali non potrebbero piu'
essere  applicate  nel presente giudizio che proseguirebbe secondo il
rito ordinario.